Masai Mara: un viaggio in Africa per riscoprire, nel mondo selvaggio degli animali, un intimo contatto con la Natura. Una serie di emozioni inaspettate svelano il mistero della vita e della morte.  

testo e foto di Fausto Moroni

       Kenya, Est Africa, Mara Buffalo Camp, ore 4.30 a.m. Puntuale suona la sveglia. Puntuale e inutile come ogni strumento che misura il tempo in Africa. Fuori è ancora buio, ma sento il fiume Mara scorrere, gli uccelli cantare, gli ippopotami sbuffare. Non c’è vento e gli alberi, silenziosi, non sanno ancora come annunciare se stessi, ma ci sono. La notte africana senza luna li nasconde sotto un cielo stellato che non ha eguali. Diceva Denis Finch-Hatton “non so quale sia il motivo scientifico, ma in Africa le stelle sembrano più vicine”. Anch’io dimentico la scienza, esco dal bungalow e, testa rivolta verso l’alto, mi perdo fra le mille scintille che mi sovrastano. La natura canta la sua poesia e a me non interessa la metrica, l’impatto emotivo è più forte di qualunque legge fisica. Così contemplo l’Africa senza pensare alla latitudine e all’altezza a cui mi trovo.

       Vorrei scrivere un resoconto dettagliato e scientifico di una giornata trascorsa al Masai Mara fotografando la vita e la morte degli animali e i paesaggi incontaminati della savana, in cui il fluire del tempo, che pure sembra essersi fermato, è scandito solo da albe e tramonti, ma so che non posso scrivere dell’Africa in modo distaccato. 

       È ormai giorno. Il cielo è solcato da nubi maestose e la savana è sospesa in una luce senza tempo e senza memoria. Animali pascolano sull’erba ancora umida, una mosca mi ronza attorno, un avvoltoio si stacca dal suo ramo e volteggia. È mattino, solo mattino. Un mattino qualunque di un giorno qualunque, penso. Ma poi il pensiero si frantuma in un sentimento come un cristallo scoppia urtato da un suono troppo acuto. È il mattino, il mattino del tempo. Ed è questo il miracolo che l’Africa regala. Dura un istante o poco più, ma in quell’istante la mente vibra come una corda tesa urtata dall’artiglio di una belva feroce e suona melodie che si confondono in un unico, sublime, silenzio africano. Ma nella savana il silenzio non è mai assoluto, l’alito della vita è ovunque. La morte è li, a due passi, nel corpo floscio e esangue della gazzella, ma l’energia di quel corpo non va perduta. È già nel fremito del muscolo teso del ghepardo, nell’occhio sospetto della iena, nei goffi salti dell’avvoltoio, nell’indaffarato e invisibile trasformare dei batteri. Ogni molecola viene scissa, ogni atomo ricombinato con altri fino a tornare di nuovo vita. È un suono di fondo continuo, incessante, incalzante, è il suono della vita che si perpetua.

       La pista che sto percorrendo oggi è la stessa del giorno precedente, ma ieri gli elefanti che incontro questa mattina non c’erano. Stanno pascolando sparsi in un boschetto di acacie basse, territorio prediletto del leopardo. Grazie all’abilità del game driver riusciamo ad entrare nel mezzo del branco senza urtare troppo la sensibilità dei giganteschi pachidermi. Il motore si spegne e inizia l’avventura. Circondato da questi mansueti animali dalle lunghe zanne, quasi preistorici, mi sento piccolo e indifeso. Per un attimo mi sfiora un sentimento di paura e di disagio, poi quando un’enorme femmina, la matriarca, avvicinandosi alla macchina mi annusa allungando la proboscide, comprendo di non essere affatto in pericolo. Lo stesso gesto viene ripetuto dal cucciolo che le cammina accanto, forse vuole solo giocare. La paura e il disagio se ne vanno, la vecchia elefantessa mi ha accettato, inizia la contemplazione. E con essa l’avventura.

       La quiete che si prova stando in “compagnia” di un numeroso branco di elefanti che si muove in libertà nella savana può apparire strana e inverosimile, eppure ricordando quelle ore è della quiete che devo parlare. I movimenti lenti, i passi pesanti ma delicati tanto da non disturbare mai i piccoli elefantini sempre tra i piedi, il mangiare continuo e incessante. Foreste intere vengono distrutte da questi pachidermi, ma con calma, senza il crepitio e il fragore di un incendio o, peggio, di seghe elettriche manovrate da mano umana. Eppure vengono mangiati germogli, rami, interi alberi. Ma c’è grazia in quei movimenti e c’è armonia, c’è quiete, quella quiete che l’uomo ormai può contemplare solo in Natura.

       Circondato da quel branco di elefanti scopro finalmente la radice della sensazione che ho sempre provato ogni qual volta mi sono trovato di fronte ad una scena di natura, apparentemente violenta o d’amore. Ma in natura non esiste violenza e non esiste amore. Nell’amplesso dei due leoni non c’è amore, nel ghepardo che rincorre e sbrana la gazzella non c’è violenza, in entrambe le scene, solo all’apparenza opposte, c’è l’unificazione della morte con la vita. Quell’unità che la scienza e la filosofia rincorrono con formule ed astrazioni, ma che in Africa è in ogni momento davanti ai nostri occhi quando si osserva la Natura. La morte della gazzella, così come l’amplesso dei leoni sono tesi entrambi a perpetuare la vita. E l’Africa, in modo crudo e selvaggio, svela questa semplice realtà dimenticata e concede a chiunque il privilegio di entrare di nuovo nei ritmi della Natura, come osservatore, certo, non potrebbe essere altrimenti. Ma a volte lo spettacolo è tanto coinvolgente che da spettatore puoi diventare tu stesso attore. Allora nell’incredibile palcoscenico della savana ci sei anche tu.

       Questo è accaduto quando la matriarca, allungando la proboscide verso di me, mi ha accettato nel branco come un essere naturale. Con lo stupore di una consapevole e quanto mai desiderata rinascita sono stato li, per ore forse, insieme a quegli elefanti. Mi sono confuso con loro, con quei corpi pesanti, con quei barriti assordanti, e in quell’atmosfera incantata, e per così dire astorica, mi sono perso. Ricordo questa emozione ora, mentre scrivo, e so che quegli elefanti sono ancora li, liberi e incontrastati signori della savana. Ancora li … adesso!

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