20.000 Kmq di savana fanno del Kruger un santuario naturalistico recintato di fama internazionale. Ma sarà questo il futuro anche delle altre aree protette d’Africa, continente che per definizione si associa all’idea di wildlife?

Testo e foto Fausto Moroni & Barbara Baldoni

 

 

        L’attrezzatura fotografica è pronta, o almeno lo spero! La mia F70 ha subito un duro colpo in Giordania rotolando lungo una scalinata di pietra insieme a chi scrive. Proteggendogli la testa ha riportato un evidente danno al livello del pulsante di scatto, l’obiettivo che vi era montato: diviso in due! Ha comunque continuato a funzionare, la fotocamera, sia in quell’occasione che in altre, quindi l’idea di cambiarla per passare inesorabilmente al digitale … rimandata! Anche la valigia è pronta, sempre troppe cose e troppo pesante. Sarà colpa del fido cavalletto?! Destinazione: Sudafrica, Parco Kruger. Treno fino a Bologna, volo per Francoforte e dopo una notte trascorsa senza chiudere un occhio stipati nell’economy class della Lufthansa, finalmente ci sgranchiamo le gambe all’aeroporto di Johannesburg in attesa dei nostri bagagli, che fortunatamente non tardano ad arrivare. Un segno molto poco africano! Oltrepassata la dogana l’autista che ci attende, e che ci accompagnerà al Kruger, è un bianco rosso di capelli e la periferia di Johannesburg, che attraversiamo rapidamente in mercedes, appare, fuori dai finestrini, più una città europea o americana. Altri segni poco africani.

        Avremo sbagliato volo? Nella confusione dell’aeroporto di Francoforte tutto può accadere, ma qualcuno ci avrebbe bloccato prima di un eventuale imbarco sull’aereo sbagliato, quindi siamo veramente in Sudafrica. Il nostro autista ci dice che la sera prima ha nevicato. È il cinque di agosto e questa notizia non ci sorprende: nell’emisfero australe è inverno. Spero solo che al Kruger non faccia eccessivamente freddo, anche se nella pesante valigia abbiamo tutto l’occorrente, giacca a vento compresa, che nei safari mattutini si rivelerà molto utile. Il driver, comunque, ci rassicura. La temperatura supera, di giorno, anche i trenta gradi, per scendere però drasticamente di notte, con un’escursione termica che può superare anche i venti - venticinque gradi. Il percorso da Joannesburg al Kruger è lungo e dopo una notte in bianco vorrei riposare un po’, ma il nostro compagno di viaggio, bianco, ama il suo Sudafrica e ce lo racconta tutto in cinque ore: diamanti, oro, impianti per la produzione di energia elettrica, enormi appezzamenti di terreno per le più svariate coltivazioni, parchi e aree protette naturali dove la vita si svolge come cento, mille e più anni fa. Fra le palpebre che a momenti mi pesano come macigni e panorami che si srotolano sfuocati fuori dal finestrino, non una parola le mie orecchie odono, in quell’inglese che ormai sopportano a fatica, su apartheid, integrazione e popolazione realmente indigena.

        Finalmente, dopo aver percorso una via piena di negozi e supermercati, arriviamo al Crocodile Gate, uno degli otto ingressi al parco, esibiamo i nostri documenti che attestano il permesso di entrare e dopo aver sbrigato alcune formalità inizio a girarmi un po’ intorno. Un organizzato centro per le visite, un campeggio, un distributore di benzina e un parcheggio per camper rendono questo gate molto poco africano. Al Kruger, come in un parco americano, si può accedere con mezzi privati e senza guida. Una rete stradale provvista di segnaletica di ben 700 Km asfaltati e altri 1300 di piste ben battute, consentono, a qualunque tipologia di automobile, agili spostamenti e molti turisti scelgono proprio questo modo per trascorrervi qualche giorno, pernottando in strutture spartane o lussuose, a seconda delle disponibilità economiche e girando all’interno del parco in perfetta libertà. L’unica limitazione è rappresentata dagli orari di uscita ed entrata dai lodge, rispettivamente dopo l’alba e prima del tramonto. Proprio per questi motivi la mia metà è, oltrepassato il gate, una riserva privata dove sono previste uscite con partenza prima del sorgere del sole e rientro dopo la sua scomparsa oltre l’orizzonte, almeno quello, spero, tipicamente africano! La sensazione di non essere nel continente nero, che provo ripetutamente, comincia, infatti, a disturbarmi un po’. Ho volato nove ore per arrivare in Africa, e non in qualche altro luogo del mondo! Varcato il gate il driver cade in un improvviso silenzio, dettato, forse, dalla stanchezza o dal rispetto per il più vecchio santuario della natura riconosciuto a livello mondiale. Quale sia il motivo non ha importanza. Finalmente sento per la prima volta di essere in terra d’Africa e la vista dei primi animali selvatici e della savana, invece della natura modificata dall’uomo che mi ha accompagnato per quasi cinque ore, mi fa dimenticare stanchezza e sonno e apprezzare molto di più quell’anelato silenzio.

        Al main lodge ci attende un fuoristrada, guidato anche questo da un bianco, che ci condurrà al campo tendato, che, sorpresa, ha tutto personale di colore. Dal catalogo avevamo immaginato che le tende sarebbero state particolarmente confortevoli, ma la realtà, a volte, supera la fantasia. La tenda dove veniamo accompagnati attraversando passerelle di legno sollevate da terra è enorme, con un gran bel letto, un camino, un angolo salotto ed un bagno molto accogliente, non manca neanche una vasca con tanto di piedi di leone posizionata appena internamente rispetto all’ampia veranda, corredata di tavolino, sdraie e ombrellone. Una comoda doccia esterna completa questa suite tendata arredata in perfetto stile coloniale. Il pezzo forte del tutto, comunque, è la veduta che si gode da qualunque punto della tenda ci si trovi: dal letto, dal salotto, dalla vasca, e ovviamente dalla veranda e dalla doccia, vediamo un placido lago dove avremo modo di ammirare molte specie all’abbeverata, oltre il quale si estende la savana. Finalmente … l’Africa degli animali, dove, appunto, avevamo deciso di andare … senza prevedere tutto questo lusso come corollario.

        Il Kruger occupa una striscia di terra di 20.000 Kmq nel nord del Sudafrica e confina ad est per tutta la sua estensione longitudinale con il Mozambico, da cui è separato dalla catena dei monti Lebombo, la cui cima più alta non supera però i 500 m di altitudine. Colline, valli, pianure, affioramenti rocciosi e la presenza di ben sette fiumi caratterizzano la morfologia del parco. Con più di 300 specie di alberi, tra cui acacie, mopani, baobab e fever trees, 130 specie di mammiferi, 500 di uccelli, 100 di rettili, 30 di anfibi e 40 di pesci, il Kruger rappresenta la più importante riserva naturalistica sudafricana. Caratterizzato da un clima estivo particolarmente ricco di piogge ed uno invernale arido, il suo aspetto varia a seconda delle stagioni: erba alta anche sopra i due metri, vegetazione estremamente rigogliosa e clima caldo umido da novembre a marzo; savana arida, praterie, boscaglie e clima secco da giugno a settembre, periodo senza dubbio più favorevole per l’avvistamento della ricca fauna che vi vive. Istituito nel 1898 da Paul Kruger, che creò la Sabie Game Riserve, e ampliato successivamente, è stato aperto al pubblico nel 1927, ed oggi è visitato da oltre un milione di persone ogni anno.

        Noi ci fermeremo qui per dieci giorni, durante i quali la nostra attività principale sarà fare safari, almeno questa è l’aspettativa e lo scopo del viaggio. Ben presto ci accorgiamo, però, che mangiare e rilassarsi rappresentano due altre importanti attrattive di un soggiorno in una riserva privata al Kruger. Le giornate si svolgono pressappoco così: sveglia alle cinque, te con biscotti, safari con spuntino nella savana, rientro al campo intorno alla nove, abbondante colazione all’inglese e internazionale, relax o passeggiate nei dintorni del campo, pranzo a buffet, riposino. Alle sedici te con biscotti e dolci, quindi inizio del safari, sosta aperitivo con carne secca tipicamente sudafricana nella savana durante il tramonto, proseguimento del safari e rientro al campo per la cena a lume di candela, servita al tavolo, sotto il cielo stellato dell’emisfero sud. Tutto sembra perfetto: un’Africa distillata fra natura e lusso, o meglio, dei piccoli angoli di lusso immersi nella natura. Eppure qualcosa, anche all’interno del Kruger, si insinua nella mia mente e risveglia quella molto poco piacevole sensazione di non essere in Africa. I safari sembrano, più che safari, delle “passeggiate” nella savana, confortevoli. Gli animali si incontrano con facilità, ogni jeep è dotata di radiotrasmittente e tutti sono in contatto con tutti e si scambiano informazioni. Il safari diventa un “andiamo li che è stato avvistato quell’animale … andiamo la che c’è un branco di bufali … ancora più in la c’e il leopardo. Se capita di forare dopo cinque minuti arriva il soccorso … insomma siamo in Africa o dove!? Certo la Natura non mente: il paesaggio è africano, savana piatta dove lo sguardo spazia fin oltre l’orizzonte, colline, scarpate rocciose; la vegetazione è africana, erba alta, secca, acacie, alberi della febbre; anche la fauna è indubbiamente africana, ma quell’idea di non essere nell’“Africa vera” è una goccia cinese che martella la mia mente e fa nascere spontanea una domanda: perché questo famoso santuario della natura mi genera questa sensazione?

        I safari continuano, tutti i giorni. Fotografare è la nostra principale attività, e le buone occasioni non mancano, anche se a volte dobbiamo limitare le nostre esigenze per rispettare quelle dei nostri casuali compagni di safari. Ne incontriamo molti, italiani e non, che si fermano una o due notti per poi riprendere il loro tour del Sudafrica, tutti simpatici e rispettosi della nostra passione per la fotografia e disponibili a pazientare quando l’esperienza ci dice che un minimo di attesa può regalare a noi una buona immagine e a loro qualcosa di interessante che la fretta avrebbe fatto perdere. È durante una raffica di scatti che un rumore sordo blocca lo specchietto della F70 nella sua posizione sollevata. Non si riabbasserà più. La botta della Giordania ha sortito il suo effetto, definitivo. Continuiamo a scattare con la F301, ma l’assenza dell’autofocus si fa sentire molto più dell’unica misurazione esposimetrica della media ponderata al centro che consente la fotocamera, l’esperienza, infatti, ci fa scattare senza considerare il valore di esposizione indicato dalla macchina. I problemi sorgono, però, all’alba e al tramonto, tentiamo di superarli con uno smoderato consumo di pellicola, non potendo misurare con precisione lo spot di luce a lato del sole!

        La “dipartita” della F70 certo non è cosa da poco, non ci voleva proprio durante il viaggio e apre quell’ipotesi che tenevo ancora fermamente lontana di un passaggio al digitale, ma fortunatamente non riesce a “rovinare” il safari. Infondo un’altra fotocamera l’abbiamo e, soprattutto, siamo in Africa, ovvero dove vogliamo essere, anche se il rosicchiare di quel tarlo, a volte, si mescola con i classici rumori della savana. Fortunatamente, però, comprendo presto la sua origine. Precisamente un pomeriggio dedicato alla ricerca di un leopardo, che poi non abbiamo scovato, ma che ci ha portato ai margini del parco, ovvero vicino alla sua doppia recinzione elettrificata. Nonostante la sua estensione, il Kruger è infatti completamente recintato. Lo sapevo, per averlo più volte letto, ma come si tentano di rimuovere le cattive notizie, l’avevo rimosso, ma non completamente. Era infatti proprio questa consapevolezza il tarlo invisibile che lavorava nella mia mente. Il santuario della natura non è immerso nella natura ma è un oasi “felice” della natura! Il Kruger è controllato e regolato dall’uomo, senza l’intervento del quale l’ecosistema che ora vi sopravvive all’interno in poco tempo degenererebbe tragicamente. Sarà dunque questo il futuro destino anche delle altre riserve naturalistiche africane realmente tali? Penso al complesso, unico e delicatissimo fenomeno della migrazione che coinvolge Serengeti e Masai Mara, ma anche ad altre aree dell’Africa centrale e meridionale non ancora circondate da reti elettrificate. Saremo costretti, in futuro e ovunque nel mondo, per assaporare un po’ di natura, a varcare dei cancelli e dimenticare di essere all’interno di zoo enormi, schiavi del nostro stesso progresso? Il tarlo era finalmente uscito allo scoperto. Ed io, si fa per dire, più sereno. Anche se un’altra domanda assillava la mia mente: l’uomo sarà tanto saggio e intelligente da saper in qualche modo arginare questa deriva ecologica con interventi tesi a colpire seriamente il fenomeno del bracconaggio e a garantire una sopravvivenza eco-sostenibile alle popolazioni che vivono all’interno o in zone circostanti ad aree di interesse naturalistico, che rappresentano in modo inconfutabile una ricchezza per l’intera umanità? Ogni creatura, sia animale che vegetale, svolge nella savana un preciso ruolo, contribuendo al mantenimento di un perfetto ma precario equilibrio. Condizione fondamentale affinché ciò avvenga è però la possibilità di libero movimento migratorio subordinato da condizioni climatiche variabili e da diverso accesso al cibo. Un’area naturalistica recintata, per quanto estesa possa essere, tenderà necessariamente, con il tempo, a perdere la sua connotazione di wildlife e richiederà l’intervento umano per regolamentare le popolazioni animali delle varie specie che vi vivono, al fine di evitare problemi di sovra o sotto-popolamento, che si ripercuoterebbero inevitabilmente sulla vegetazione. La natura “selvaggia” non tollera limitazioni e l’uomo deve essere tanto intelligente e lungimirante da comprendere che ogni intervento restrittivo è destinato, prima o poi, a fallire, o, quantomeno, a trasformare ambienti realmente naturali in surrogati di natura. Ogni animale o pianta, in quanto singolo elemento di un ecosistema più complesso, merita di essere osservato, studiato, fotografato, ma al contempo lasciato libero, perché è proprio grazie alla sua presenza e alla sua libertà che la savana, nel suo insieme, “respira” come un unico grande organismo vivente.

        I Parchi Naturali, se si vuole che restino tali, ovvero che conservino in pieno le loro caratteristiche di wildlife e non si trasformino in grandi zoo safari, non devono essere recintati. Questa, almeno, è la conclusione cui giungo proprio davanti a quella recinzione elettrificata! Consapevole di ciò, tento di godermi gli altri giorni di safari, che, nonostante tutto, saranno ancora emozionanti.

        Presto, troppo presto, arriva comunque la mattina della partenza. Facciamo un’ultima uscita nella savana prima dell’alba. Avvistiamo pochi animali, il cielo sopra di noi è plumbeo e il Kruger ci saluta con una debole ma persistente pioggerella fuori stagione. Il ritorno a Johannesburg lo facciamo con un altro driver, bianco anche lui. Questa volta, però, sono sveglio e quindi, ben predisposto alla discussione, chiedo molte cose. Lavora alle dipendenze di un lodge nel nord del parco e nei giorni liberi trasferisce clienti di altre strutture a Johannesburg e viceversa. Tutte le mattine si sveglia prestissimo, sistema la “sua” Jeep e accompagna nella savana soprattutto facoltosi americani e inglesi, tuttavia, dice “ogni giorno è diverso” e detto da lui, che lo fa ormai da più di dieci anni, deve essere assolutamente vero, io non stento a credergli! Prima di uscire dal parco, con quell’entusiasmo tipico di chi ama veramente quello che fa, ci racconta caratteristiche e abitudini di ogni animale che incontriamo, dandoci così l’illusione che invece di finire il nostro viaggio stia per cominciare di nuovo. Ma presto arriviamo al gate e usciamo definitivamente dal Kruger. L’espressione, nel suo volto, cambia repentinamente e si ammutolisce. È nato in Kenya da genitori olandesi e conserva il Masai Mara nel cuore. “Il Kruger è bello, ma è un oasi naturalistica staccata dal resto del territorio Sudafricano, l’Africa è più a nord”. Gli chiedo del Lodge dove lavora. È lussuosissimo, vasca iacuzzi e piccola piscina privata in ogni suite, per intenderci, e si paga più di 1000 $ a notte. Chi sono i clienti? “Funny people”. Interessati alla natura? “Funny people!” ripete con un delicato sorriso che disegna le sue labbra. Poi frena di colpo, ha visto un animale sulla strada, scende, corre tornando indietro, controlla se è ferito, quindi lo deposita delicatamente oltre la scarpata nella direzione verso cui intuisce era diretto. È intimamente contrario ai parchi recintati, ma se non lo fossero, dice, “il bracconaggio avrebbe la meglio e forse lo stesso Kruger sarebbe destinato a scomparire”. In lontananza, da un’altura, intravediamo la città di Johannesburg su cui incombe una minacciosa nube grigia. “È una città pericolosa, il livello di delinquenza è molto elevato, così come le disparità sociali”. Una città tipicamente africana, penso. In silenzio ne percorriamo la periferia fino a raggiungere l’aeroporto, scarichiamo i bagagli e nel ringraziare questo giovane ragazzo bianco intuisco che in poche ore mi ha fatto capire il Sudafrica più di quanto avrei potuto fare viaggiandoci per settimane.

        Molte cose non dimenticherò di questi dieci giorni, sicuramente quell’improvvisa frenata e il salvataggio del piccolo animale, di cui non ho neanche riconosciuto la specie. Sicuramente non era uno dei big five. Ma proprio per questo ho potuto apprezzare ancor di più quel piccolo grande gesto, compiuto in questa Africa del ventunesimo secolo in cui se non si è in via di estinzione non esistono programmi di protezione e se si appartiene, al contrario, ad una specie in esubero nella migliore delle ipotesi si viene sradicati dal proprio territorio per popolarne altri, nella peggiore, si muore per mano di cacciatori, in un carosello che non avrà più fine, se non quando si comprenderà che la tutela dell’ambiente e la sconfitta del bracconaggio sono gli unici interventi utili per scongiurare che la natura venga relegata esclusivamente all’interno di paradisi artificiali.

 

      

     

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