Porta del deserto nel sud marocchino. Tra la catena dell'Atlante e il Sahara, alla scoperta delle quinte cinematografiche che l'hanno resa famosa e di una cultura che sopravvive nonostante la sua fama.

Testo e Foto Fausto Moroni & Barbara Baldoni

       Il valico è a duemiladuecentosessanta metri sul livello del mare. La neve ha imbiancato le cime tutt’intorno, ma il serpente d’asfalto che taglia queste montagne è pulito, e quando comincio a scendere dall’altra parte, fra un tornante e l’altro, lo spazio si apre e la vista, non più ostacolata da imponenti massicci montuosi, inizia a vagare sul deserto più grande e affascinante del mondo: il Sahara.

       Ho lasciato Marrakech da poche ore, i suoi odori, i suoi colori, le porte dipinte d'arabeschi delle sue moschee e il mistero delle sue donne velate. L’urlo dei gabbiani e le reti stese al sole dei pescatori di Essaouira, cittadina bianca sul blu profondo dell’Oceano Atlantico, sono ormai solo un vago ricordo. Ma un altro mare mi attende, fatto di sabbie e rocce, e isole verdi perdute nel vuoto. Immagino già i gialli e gli ocra colorare l’ambiente, e la temperatura salire, curva dopo curva, man mano che si scende. Dal clima invernale dei duemila metri arriverò ai trenta gradi in poche decine di minuti, ma prima fisso nella memoria i villaggi montani. Spazzati dal vento, sembrano sprovvisti di tutto ciò che permette di viverci, eppure sono abitati. I panni lasciati ad asciugare a terra da un sole freddo ne sono l’effimera prova. Le case cubiche, a volte dai colori inaspettati, rosa, celesti, dai contorni merlati, sono abbarbicate sui pendii rocciosi delle montagne e sembrano abbandonate. Piccoli ponti incerti permettono di attraversare minuscoli corsi d’acqua, che possono però trasformarsi in breve tempo in rapidi e pericolosi torrenti. Qua e la, finalmente, ecco concretizzarsi la presenza umana: donne dagli abiti variopinti si muovono con eleganza fra le pietre e gruppi di bambini improvvisano improbabili partite di calcio con un pallone di pezza, che cercano di infilare tra due sassi che a malapena non si confondono con gli altri. Ma la guida mi attende. Dobbiamo attraversare la catena dell’Atlante prima che scenda la notte. È inverno e potremmo essere sorpresi da una tormenta di neve. 

       Qui, dove il tempo sembra essersi fermato, io devo muovermi. Così riprendo la strada verso la porta del deserto, ma arrivo ugualmente che è già notte. Solo la luce dell’alba svelerà il verde del palmeto e le infinite gradazioni e sfumature dei gialli e degli ocra del paesaggio circostante e delle case di fango della città vecchia dell’oasi di Ouarzazate. Sì, della città vecchia, perché Ouarzazate ha ormai due anime: quella sahariana di porta del deserto e quella di una moderna città, provvista di aeroporto, alberghi e tutte le comodità che un occidentale può sognare in un luogo esotico. La vicinanza della catena dell'Atlante condiziona favorevolmente anche il suo clima, e fa sì che in estate, salvo in rari ed eccezionali casi, la colonnina di mercurio non salga mai ai valori elevatissimi tipici delle aree desertiche; in inverno, invece, è il deserto e il soleggiamento costante a mantenere la temperatura piacevolmente mite, rendendola addirittura ideale durante la primavera e l’autunno, quando anche la forte escursione termica tra giorno e notte si attenua rispetto ai mesi invernali.

       Da quando venne scelta come set cinematografico da importanti produzioni mondiali, l’oasi ha però perso, per il viaggiatore, gran parte del suo fascino, tuttavia conserva ancora le sue innegabili bellezze paesaggistiche ed architettoniche, a cui deve la sua fama e che hanno richiamato registi e fotografi di tutto il mondo. Bernardo Bertolucci e Vittorio Storaro girarono qui alcune scene del famoso film “Il te nel deserto”. La serie della “Bibbia” è stata quasi interamente girata in questa parte del Marocco e molte altre produzioni, come  “Il Gioiello del Nilo”, per citarne una, hanno montato qui i loro set cinematografici. Mohammed Belghmi, marocchino dallo spiccato spirito imprenditoriale, compresa la potenzialità di Ouarzazate e dei suoi dintorni montuosi e desertici, costruì il primo, e sicuramente oggi più importante, stabilimento cinematografico, l’Atlas Corporation, trasformando l’oasi in una piccola Hollywood del deserto. Parlando con i suoi abitanti è facile incontrare persone che orgogliosamente raccontano di aver lavorato con attori e attrici famosi. Il ruolo, sebbene fosse quello di semplice comparsa, non sminuisce l’idea di aver preso parte a produzioni importanti e miliardarie, e per le quali si va fieri. Alcuni propongono addirittura oggetti o vesti che sono riusciti a trattenere alla fine delle riprese. Difficile, comunque, essere certi dell’autenticità dei pezzi e contrattare, in questi casi, è una regola da applicare alla lettera. Ma non ci si deve esimere dal contrattare neanche nei numerosi negozi di souvenir che punteggiano la via principale di Ouarzazate, dove è possibile acquistare di tutto, da tappeti annodati a kilim, da babbucce a chech, i classici turbanti blu con cui i tuareg si avvolgono il capo per proteggersi dal sole e dalla sabbia, da monili in metallo di poco valore ad antichi e preziosi gioielli d’argento, da scatole di legno finemente intarsiato ai più svariati oggetti dell’artigianato locale.

       Ma la innegabile attrazione di Ouarzazate, e dei suoi dintorni, risiede fondamentalmente nel verde rigoglioso dei palmeti incastonati sulle rocce rosse del djebel e nelle numerose casbe diroccate che emergono con i loro torrioni come cattedrali nel deserto, imponenti e beffarde, misteriose e inquietanti nel loro stato di perpetuo e apparente abbandono. Eppure attraggono il viaggiatore con una forza magnetica forse ancor più potente di quelle che, per motivi cinematografici, sono state ristrutturate, o della stessa casbah di Taourirt, cuore pulsante al centro di Ouarzazate. Risalente al XVIII secolo, è stata l’antica dimora del Galoui, pascià di Marrakech, e, unica nel suo genere, presenta al suo interno appartamenti decorati con zellige, intonaci, stucchi e soffitti in legno di cedro sapientemente dipinti con colori naturali, quali il nero del kajal e il rosso dell’henné. Merita senza dubbio una attenta visita, non solo per il valore storico, ma anche per quello artistico. Da visitare sono anche la casbah di Tifoultoute, parzialmente ristrutturata, di Skoura, cattedrale di terra rossa immersa in un rigoglioso palmeto e di Ait Bennaddou, quinta, per così dire ufficiale, di numerose scene di importanti film. Ma se queste sono le casbe che maggiormente attraggono i turisti, non bisogna dimenticare che i dintorni di Ouarzazate sono costellati da numerose altre antiche fortificazioni, e allora quale esperienza migliore se non quella di uscire dal rituale circuito turistico e, come giovani esploratori del terzo millennio, passeggiare all’interno di una di queste piccole città fortificate sconosciute, ammirandone l’inquietante e solo apparente stato di abbandono?

       Tutte sono interamente costruite con tronchi di palme e argilla e a volte i torrioni più alti sembrano non poter reggere neanche il peso dei nidi che le cicogne vi hanno abilmente costruito sopra. Tutto sembra sgretolarsi da un momento all’altro sotto il sole implacabile del deserto, eppure sono lì da tempo immemorabile. Spesso sono abitate da famiglie e con pochi diram è possibile visitarle. Allora attraversare cunicoli e bui sottopassaggi per trovarsi all’improvviso in piccole aree assolate, oppure salire ripide scale percorrendo corridoi il cui pavimento sembra cedere da un istante all’altro, ed affacciarsi da strette feritoie sul paesaggio circostante, rappresenta un’esperienza unica. Specialmente al tramonto, quando i colori acquistano un  vigore inaspettato e sembrano uscire dalla tavolozza di qualche artista folle. Lo stupore allora aumenta, l’immaginazione prende il sopravvento e vaga tra suoni di tamburi, grida di canti berberi e danze ipnotiche. L’eco dei passi dei dromedari cavalcati da fieri uomini blu col volto coperto, le cui carovane si sono spinte molto a nord, si diffonde nell’aria insieme ad un forte aroma di menta, che ha ormai pervaso tutto l’ambiente. Ma questa non è un’illusione. La famiglia che vive in questo castello di terra, mantenendolo in vita, e che mi ha invitato a visitarlo, ora mi consente di vivere un’esperienza tipicamente sahariana.

       Seduto su semplici stuoie di palma mi vengono offerti tagella e te, simboli di ospitalità e accoglienza in tutto il Sahara. Non accettare offenderebbe l’ospite, la bevanda, inoltre, è estremamente buona e corroborante e nel deserto l’energia non è mai abbastanza. Il rituale della preparazione del te viene eseguito a regola d’arte, come la più antica delle tradizioni vuole. Così bevo i classici tre bicchierini di te, il primo amaro come la vita, il secondo dolce come l’amore e il terzo leggero come la morte, poi, entrato d’incanto in un’altra dimensione, salgo su una piccola altura che domina il palmeto e il djebel circostante. La vista è unica, alle mie spalle le cime innevate della catena dell’Atlante si colorano di rosa, davanti si estende il deserto, quello vero, quello che l’immaginario collettivo vuole sia fatto di dune accavallate l’una sull’altra, in una ripetitività armonica e ridondante, mai monotona, come solo la perfezione sa essere. Il sole sfiora uno sperone roccioso, poi scompare.

       Per ora mi godo tutte le sfumature del tramonto, qui, a Ouarzazate, alle porte del grande deserto. Partirò domani, per raggiungere le alte e mutevoli montagne di sabbia.

 

     

     

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