e il Deserto del Sinai: fusione di luoghi da turismo di massa e ... affascinanti

Testo e foto Fausto Moroni & Barbara Baldoni

Sharm el Sheik. Il nome evoca luoghi da sogno, spiagge incontaminate, mare cristallino, barriere coralline con pesci e coralli multicolore. E ancora, il deserto, quello del Sinai, roccioso, con vette che sfiorano i tremila metri e con, immutato da secoli, tutto il suo fascino umano, paesaggistico, storico e religioso. Eppure organizzando questo viaggio ho avvertito un dubbio, la sensazione di una domanda che non sono però riuscito a formularmi. Ora sono a bordo del charter, il pilota ha già iniziato le manovre di atterraggio all’aeroporto internazionale di Sharm el Sheik e quella domanda si perde ancora inesorabilmente nel buio che scorgo guardando fuori dall’oblò dell’aereo. Presto inizio però a vedere una miriade di luci multicolore incastonate caoticamente fra il nero del mare e del deserto. Sono gli alberghi che punteggiano un lungo tratto di costa, l’unico, fortunatamente, in cui il governo egiziano ha permesso di costruire. La sensazione di caos è confermata il mattino successivo, quando, attratto più dal deserto che dal mare, decido, con un taxi, di perlustrare l’immediato entroterra di Sharm el Sheik. Gli alberghi sono ovunque, non solo lungo la costa, e sono spesso circondati dai resti dei cantieri in un caos che non appartiene affatto al deserto. Si sa che l’entropia di un sistema può solo aumentare, così, alla perfezione e all’ordine dei giardini e degli alberghi, si associa un ambiente circostante deturpato e caotico, pieno di rifiuti e resti di “architetture” umane. Chiedo al mio autista se mi può condurre in luoghi ancora più interni e in poco tempo arriviamo in un anfiteatro “naturale” dove di sera i turisti, pagando suon di dollari, effettuano l’escursione cosiddetta “passeggiata in cammello con cena beduina”. Il luogo, di giorno, dà la sensazione di una discarica. Le rare acacie che crescono a fatica vicino agli scoscesi pendii dei piccoli massicci montuosi sono il ricettacolo di sacchetti di plastica abbandonati, ogni punto della pianura è attraversato dai segni delle moto a quattro ruote con le quali si effettua un’altra escursione, anch’essa pagata suon di dollari, denominata “moto nel deserto”. Mi consolo pensando, e sperando, che almeno tutto il turismo nel deserto circostante Sharm el Sheik sia convogliato qui e che fuori da questo anfiteatro, che ormai non ha più niente di naturale e poco ha a che fare con il deserto, l’ambiente sia incontaminato e perfetto, ovvero, realmente desertico. Ne ho fortunatamente conferma il pomeriggio del giorno successivo quando decido, sempre con un taxi, di avvicinarmi ai massicci montuosi che fanno da quinta alle acque cristalline del Mar Rosso. Le ombre si allungano, i contrasti si fanno interessanti, la luce è quella propria del deserto prima del tramonto, unica e irripetibile, come nel giorno della creazione, eppure, proprio qui, riaffiora alla mia mente l’ombra di quella domanda.

Il contrasto tra luoghi di rara bellezza e luoghi deturpati da un turismo di massa selvaggio e irrispettoso è ormai una caratteristica della costa di questa zona della penisola del Sinai. La mancanza quasi assoluta di spiagge, ha fatto si che molti alberghi siano stati costruiti sulla roccia che cade a picco direttamente sul mare o su piccole spiagge artificiali di sabbia riportata. Oltre, le tonalità verdi, celesti, turchesi, azzurre del Mar Rosso e, sotto, la enorme e stupefacente varietà delle forme di vita della barriera corallina, seconda per estensione in tutto il mondo dopo quella australiana e unica per la latitudine a cui si trova. La si può ammirare facilmente facendo snorkeling. Mi immergo, o meglio, galleggio a pelo d’acqua e contemplo, stupito, una delle tante meraviglie della natura: pesci multicolore nuotano attorno a piccoli polipi che sbucano fuori dai loro gusci calcarei, vecchi di milioni di anni, celesti, rosa, verdi, bianchi, e con i loro piccoli tentacoli, sede di cellule urticanti, paralizzano gli organismi planctonici che si trovano a passare di li e se ne nutrono. È solo quando risollevo lo sguardo verso la costa per prendere fiato che avverto la sensazione di non essere più immerso nella natura variopinta della barriera. A  soli pochi metri di distanza vedo gettate di cemento verticali, o quasi, sorreggere scalinate, o ancora peggio, ascensori che conducono dagli alberghi alle spiagge. Fortunatamente il governo egiziano non ha solo permesso la costruzione selvaggia di decine e decine di alberghi, per nulla inseriti nell’ambiente, ma, per tutelare le coste e la barriera antistante, ha anche creato dei parchi marini, come il Ras Mohammed National Park, e delle zone protette, come Abu Galum e Nabq. Alcune aree, vietate ai turisti, resteranno incontaminate e rappresentano la sede di studio di un ecosistema perfetto ma estremamente delicato. Semplici e ovvi divieti esistono anche nelle zone turisticamente accessibili, ma, nonostante siano scritti ovunque, non mancano turisti e indigeni che asportano frammenti di corallo e offrono cibo ai pesci, forse inconsapevoli del danno che tali gesti, apparentemente innocui, possono arrecare all’equilibrio delicato e già precario dell’ecosistema di questo ambiente, che si è sviluppato ed evoluto nel corso di milioni di anni e che può essere distrutto, per semplice noncuranza, nel giro di pochi.

Dirigo di nuovo la mia attenzione verso il deserto, in uno dei luoghi che la religione vuole tra i più mistici del mondo, ovvero il Gebel Musa, il monte sacro dove, si dice, Mosè ricevette le sacre tavole. L’ascesa verso la vetta, tre ore circa di cammino, è faticosa, ma estremamente suggestiva se si effettua di notte. File di fioche luci in movimento, circondate dal buio, illuminano il sentiero serpeggiante, ogni tanto piccole luci fisse indicano i luoghi di ristoro dove i beduini con i loro dromedari sono pronti a soccorrere, ovviamente a suon di dollari, è il loro mestiere, chi è troppo stanco. Sopra, la volta celeste, punteggiata da milioni di stelle visibili in modo così stupefacente solo nel deserto. Mentre salgo verso la vetta ho la sensazione di trovarmi all’interno di un presepio vivente dove si festeggia la natalità, o meglio, la rinascita, ma non di un solo individuo, bensì di tutti coloro che partecipano a questo pellegrinaggio, che è cattolico, protestante, mussulmano, buddista, laico e perfino ateo. Una volta sulla cima quelle fioche luci che illuminavano il percorso si spengono e la gente si ammassa nel poco spazio disponibile e attende, in silenzio, cantando o pregando, a seconda delle culture, il sorgere del sole. La presenza così massiccia di gente ed un piccolo casottino che funge da bagno, e da cui provengono esalazioni poco gradevoli, distoglie, ma il panorama intorno è ampio. Le vette, non appena la terra ruotando dolcemente verso il sole lo scopre dietro l’orizzonte, si tingono di rosso, la luce si espande e il freddo della notte fatalmente si placa. La gente si disperde e riprende la via del ritorno. Intanto la luce cambia, lo spazio si dilata ancora e il deserto, si proprio il deserto, prende forma, ed è il deserto con il suo clima implacabile, e non la religione, a rendere mistico questo luogo. Scrive Wilfred Thesiger in “Sabbie arabe” … perché questa terra crudele può esercitare un incantesimo che nessun clima temperato è capace di eguagliare ...

Scendo stanco e soddisfatto, ma l’idea di quella domanda che non so ancora formularmi assilla la mia mente. Si svelerà solo all’interno di un canyon dalle forme e dai colori fantasmagorici, sollecitata dalla figura di un animale, per così dire, dall’aspetto preistorico. Il canyon in questione è turisticamente denominato Coloured Canyon. In realtà è lo Uadi Watir che ad un certo punto si restringe dando origine a stretti passaggi dalle pareti verticali che superano anche i quaranta metri di altezza e che, per la presenza nella roccia di ossidi di ferro e manganese, assume in certi punti una incredibile gamma di tonalità, dal marrone scuro, al rosso, fino al giallo paglierino. Sulla superficie della roccia questi colori si uniscono, si separano, si inseguono e come per magia danno origine a figure astratte e non. Anch’esso è però deturpato da mano umana. Scritte e graffiti di epoca troppo recente per essere considerati storici ne imbrattano alcune pareti. Forse i nostri discendenti, passando di qui, potranno considerarli di qualche valore, quantomeno documento della imbecillità umana che caratterizzava il periodo a cavallo tra il secondo e il terzo millennio dopo Cristo. Ora, proprio mentre gli occhi di una strana testa di elefante, disegnata dalla natura, mi guardano stupefatti dalla roccia, riesco a formularmi finalmente quella domanda: perché dove arriva l’uomo arriva anche la distruzione? Perché da una parte l’uomo crea parchi, luoghi per proteggere la natura e dall’altra permette ed attua la sua distruzione incontrollata?

Sono in aereo, il mio soggiorno a “Sharm”, come si usa dire, è terminato e sto tornando in Italia con una rinnovata consapevolezza. Ma la contraddizione profonda in cui vive la mia specie non solleva solo problemi ecologici. I problemi sono anche etici e filosofici, sono irrisolti, e forse irrisolvibili, perché intrinseci all’Essere Umano. L’Uomo continuerà a stupirci per imprese e vite sublimi, ma anche per atti e vite deprecabili fino alla sua estinzione, di cui sarà il principale e forse unico artefice. Smetto di pensare e apro un giornale. Leggo dei numerosi incendi che hanno bruciato i nostri boschi. Innescati molto spesso volontariamente dall’uomo, sono sempre uomini quelli che, anche a rischio della propria vita, si adoperano per spegnerli, tentando di preservare quel patrimonio boschivo e faunistico che è prezioso e inestimabile tesoro di tutti, anche di coloro che appiccano i fuochi, che danno da mangiare ai pesci della barriera corallina e che imbrattano i monumenti innalzati dalla natura.

L’aereo attraversa una zona di turbolenze, sussulta. Chiudo il giornale e provo a dormire.  

          

        

 

pubblicazioni

home