Fausto Moroni va in Africa per la prima volta nell’82, ci ritorna con Barbara nell’88.  Da allora questo continente è la meta costante dei loro viaggi e il soggetto principale delle loro immagini. Dai deserti alle savane, è lo spazio che li attrae, e le creature che lo abitano.

Moroni dice dell'Africa: "… lo spazio in Africa si estende … e anche con l’obiettivo grandangolare più spinto sembra impossibile fotografarlo, ma poi eccolo magicamente racchiuso negli occhi del leopardo, nel volto della donna berbera, in un particolare quasi astratto di una delle infinite dune del Sahara … Ma l'Africa non è solo Natura. In Africa  c'è un' Umanità tutta da scoprire. I grandi spazi e la natura selvaggia non genererebbero alcuna emozione se non fossero sempre e costantemente compenetrati con l'Uomo che abita l'Africa. Le atroci sofferenze che si incontrano alla periferia di Nairobi diventano un tutt'uno con la figura del masai che si staglia nell'orizzonte rosso del tramonto.  Gli occhi dei bambini ormai senza più lacrime si fondono con le highlands e l'Africa non ti commuove solo per quello che vedi e che senti, ti commuove perché gli opposti coincidono. Perché quando il vento freddo della mattina sferza il tuo viso e i tuoi occhi vedono il sole sorgere di nuovo sulla savana, il tuo cuore rivede gli occhi dei bambini, delle donne, degli uomini africani ... rivede quella dignità che è propria di ogni cosa d'Africa ...".

La fotografia diventa allora il mezzo per raccontare la storia di una terra, di un animale selvatico, dell’uomo, diventa il mezzo per parlare dell'Africa, della sua Natura, ma anche dei suoi problemi, dei suoi contrasti. E non è facile. Dalla nostra posizione privilegiata cadere nella retorica è fin troppo semplice, ma in quelle righe non c'è certo la presunzione di cambiare niente, magari la speranza di sensibilizzare qualcuno verso una realtà che non può più essere ignorata.

E allora l'orizzonte della fotografia naturalistica si è esteso e comprende, ora, anche il reportage. Al di la dell'obiettivo non ci sono solo animali o paesaggi, fiori o piante, finalmente entra in scena anche l'uomo. Hanno atteso molto prima di puntare l'obiettivo sulle popolazioni indigene che incontravano nei loro viaggi per una sorta di timore reverenziale nei confronti di culture e popoli diversi, lontani. Ma in realtà, forse, non così lontani. Il non voler riprodurre la figura umana era determinato, infatti, da un concetto comune: fotografare l'uomo era come rubargli l'anima. Il distacco, invece, c'è stato proprio quando hanno iniziato a fotografarlo. Non ancora liberi da quell' "idea" si sentivano inadeguati di fronte a quei volti, a quelle figure, nonostante ogni volta avessero sempre ottenuto il consenso di fotografare. Oggi quel po' di spregiudicatezza maturata con il tempo e l'esperienza li riavvicina, ogni volta con emozioni nuove, ai "loro" soggetti. E non si sentono più ladri di anime, piuttosto, quelle anime, tentano di impressionarle su pellicola per farle rivivere lontano, a mille e più chilometri di distanza, condividendole con chi osserva le loro fotografie.

La loro passione per la fotografia naturalistica e di reportage altro non è che la ricerca profonda di quella sintonia apparentemente perduta fra Uomo e Natura.

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