Nikon F 70. Obiettivo: Sigma AF D 70-200 mm f2.8 Apo EX HSM. Pellicola invertibile Kodachrom 64 ISO.

Ecco l’ingresso nella rubrica “Racconti Fotografici Africani” di alcune foto che rappresentano l’uomo. Parlando d’Africa, infatti, non si può scindere l’elemento umano dal contesto naturale e quindi anche il fotografo naturalista non può non cogliere questo particolare aspetto e raccontarlo con il mezzo che gli è proprio, la macchina fotografica! Certo la fotografia naturalistica si discosta non poco dal reportage umano. Fotografare un animale, un fiore o un paesaggio è estremamente diverso dal fotografare un essere umano e le differenze, come è comprensibile, non sono solo tecniche.

Il ritratto "Donna al villaggio" è il risultato di due visite ad un piccolo villaggio poco a nord di Malindi. La prima volta sono andato, con mia moglie e degli amici, per comprare un pollo (kuku in swahili)! Pur consapevole delle potenzialità fotografiche del luogo non ho portato con me l’attrezzatura, ma ho "utilizzato" la visita per instaurare un primo contatto con gli abitanti, per farmi accettare e far loro accettare la futura presenza, un po’ ingombrante, della macchina fotografica.

Durante questo incontro, mentre tento di instaurare un rapporto, studio contemporaneamente  angolazioni, punti di ripresa particolari, angoli interessanti e penso se sia meglio fotografare con la luce del mattino o del pomeriggio.

Quello che ora descrivo con apparente freddezza è stato in realtà estremamente difficile. Trovarsi in un villaggio africano, non ancora contaminato dal turismo di massa, è particolarmente emozionante e la razionalità, a volte, viene sopraffatta dall’emozione e tutto si complica. Ma d’altra parte se nei miei viaggi non mi imbattessi in queste “complicazioni” probabilmente smetterei di viaggiare!

Il contatto umano magicamente si instaura, sono sufficienti poche parole, degli sguardi, dei piccoli ma significativi gesti per comprendere di essere accettati.

Allora tento di organizzare un’altra visita, questa volta però "armato" di macchina fotografica. Gli africani non amano essere fotografati, ma alla fine accettano. Ce ne andiamo con il pollo e ci diamo “appuntamento” per i giorni successivi. Ovviamente quando torno non trovo subito la persona con cui avevo parlato la volta precedente, l’unica che parlava inglese! Con le due fotocamere appese al collo mi sento osservato, ma non con la solita curiosità, quello che avverto è disapprovazione, sospetto. Ma vado avanti, sperando, prima o poi, di incontrare la mia “guida”. Finalmente la incontro, spiega le mie intenzioni alla gente del villaggio e mi dà l’ok.

La sensazione di appartenenza provata la volta precedente è molto lontana e non mi sento affatto a mio agio, comunque, inizio a fotografare. Fra uno scatto e l'altro, lentamente, e preso dal misurare esposizione, dal cercare inquadrature, e circondato da un numero indefinito di bambini incuriositi dai miei obiettivi, che non passano inosservati, inizio ad entrare in "sintonia" con il villaggio e la sua gente.

Il sole comincia ad abbassarsi e la luce calda del tramonto illumina magicamente ogni persona e cosa. Poi incontro la donna della foto. L’imbarazzo mi assale di nuovo. Davanti a quel dignitoso distacco, a quella semplicità disarmante mi sento di nuovo inadeguato. Come posso, senza alterare quell’essenza, fotografarla e restituirle tutto quello che con la sua figura riesce a comunicarmi? 

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